Nel nuovo episodio di Disinfòrmati, il podcast di Radio Activa Plus in collaborazione con Sony CSL – Rome, conosciamo da vicino la “parola dell’anno” secondo l’Oxford Dictionary, ovvero Rage Bait
C’è un tipo di contenuto che non punta a informarci, semmai a provocarci. Pensate a quei titoli che sembrano studiati appositamente per irritare il prossimo o a quei post capaci di scatenare polemiche infinite, zeppi di frasi costruite ad hoc per titillare i nostri peggiori istinti. Il meccanismo ormai lo conosciamo, anche se spesso pensiamo di poter resistere. Chissà com’è che, invece, va a finire che commentiamo, ricondividiamo, rispondiamo indignati, facendo esattamente ciò per cui quel contenuto è stato progettato.
Non è un caso se l’Oxford Dictionary ha scelto Rage Bait come parola dell’anno. L’espressione si riferisce ai contenuti creati per suscitare rabbia o indignazione, con un obiettivo preciso: aumentare il traffico e le interazioni. Non importa che le dichiarazioni in questione siano vere, false o ambigue, importa soltanto che siano in grado di provocare quante più reazioni possibili.
In questo nuovo episodio di Disinfòrmati, il podcast realizzato in collaborazione con Sony CSL – Rome, ci chiediamo perché il Rage Bait funziona così bene e cosa ci dice sul funzionamento dell’attuale ecosistema informativo.
Partiamo subito con il dire che il Rage Bait non nasce da una degenerazione casuale del linguaggio online. Si tratta di una strategia di produzione dei contenuti che sfrutta tre fattori strutturali: la nostra vulnerabilità emotiva, l’attenzione come valuta dell’economia digitale e gli algoritmi, che trattano qualsiasi forma di engagement allo stesso modo.
Anche se ci limitiamo nei toni, ma partecipiamo comunque al dibattito per “sistemare le cose”, generiamo attività e, per i sistemi di ranking delle piattaforme, attività significa valore. L’algoritmo non distingue tra chi commenta perché è d’accordo con quanto è stato espresso e chi sta litigando: vede solo un contenuto che “funziona” e lo spinge ulteriormente nei feed.
Ascolta anche Algoritmi social e democrazia: il caso Musk e la scatola nera di X
In questo senso, il Rage Bait rappresenta una versione industrializzata di dinamiche già incontrate negli episodi precedenti, in particolare quando abbiamo parlato di algoritmi, polarizzazione e disinformazione. È il punto in cui provocazione emotiva e architettura delle piattaforme si incontrano.
Nel corso della puntata, D. Ruggiero Lo Sardo presenta i risultati del progetto Cartesio, un esperimento online che ha coinvolto oltre 5.800 partecipanti italiani nella valutazione dell’affidabilità di notizie pubblicate tra il 2018 e il 2020.
Stando ai dati raccolti, le notizie che generavano più commenti e condivisioni su Facebook non erano le più affidabili, né le meno affidabili; erano quelle su cui le persone erano più in disaccordo riguardo all’affidabilità. Questo significa che molta misinformazione non viene amplificata in quanto falsa, ma perché viene contestata. Il conflitto diventa carburante e il Rage Bait è progettato esattamente per produrlo.
Il paradosso della tossicità e il disaccordo sterile
Un altro elemento chiave emerso grazie all’esperimento riguarda ciò che i ricercatori chiamano “paradosso della tossicità”. In teoria, il linguaggio violento o d’odio dovrebbe allontanare le persone dalle conversazioni. In pratica, invece, le prolunga. Le persone si sentono obbligate a rispondere, anche quando la risposta è negativa. In sintesi, allo stato attuale, il sistema premia proprio le interazioni e i contenuti che dovrebbero essere penalizzati.
Da qui il concetto di “disaccordo sterile”, ovvero una forma di conflitto che non produce confronto né comprensione, ma frammenta il pubblico in gruppi contrapposti. A differenza delle Fake News, il disaccordo sterile è relativamente facile da misurare e non dipende da giudizi di verità, ma rappresenta comunque una minaccia per la coesione sociale e per il dibattito sano.
Ascolta anche Fact-Checking VS Community Notes: quale via per limitare la disinformazione?
Se, nel contesto commerciale, il Rage Bait punta soprattutto alla monetizzazione dell’attenzione, in quello politico ha un obiettivo ulteriore: l’attivazione degli utenti. In questo caso l’obiettivo non è cercare di convincere gli avversari, ma mobilitare i sostenitori, usando l’indignazione degli altri come moltiplicatore di visibilità.
Oggi la scienza sociale computazionale riesce a misurare e descrivere con precisione questo meccanismo, mostrando come certi pattern di provocazione non solo siano prevedibili, ma vengano sistematicamente premiati dai sistemi di distribuzione dei contenuti.
Si può uscire da questa dinamica? La risposta non è semplice, ma una cosa è certa: il Rage Bait non è la malattia, è il sintomo.
Il problema di fondo è un ecosistema informativo che tratta tutto l’engagement allo stesso modo. Eppure, come ascolterete, alcune piattaforme hanno già dimostrato che il design può cambiare. Ad esempio modificando il peso delle reazioni, intervenendo sui ranking, oppure testando modelli che tengano conto delle preferenze dichiarate degli utenti e non solo delle loro reazioni impulsive. Servono, però, trasparenza, audit indipendenti e alfabetizzazione mediatica.
A livello individuale, la difesa più efficace resta sorprendentemente semplice. Basta fermarsi un attimo prima di reagire. Chiedersi se il contenuto che stiamo leggendo ci sta informando o provocando, ricordandoci che ogni interazione contribuisce a farlo circolare.
Il Rage Bait vive della nostra attenzione. Imparare a riconoscerlo significa riprendersi un piccolo, ma fondamentale, margine di scelta.
S. C.
Ascolta anche: Chi risponde quando l’AI sbaglia? Dentro le redazioni, tra nuove pratiche e leggi europee

