Quando interroga ChatGPT o un assistente vocale, la maggior parte degli utenti tende a essere gentile e a ringraziare per l’aiuto ricevuto. Come si spiega questo atteggiamento? E come sta cambiando il nostro modo di comunicare con l’AI?
“Perché sono gentile con ChatGPT? Beh, visto che un giorno diventeranno coscienti e si trasformeranno nei nostri padroni, spero che le intelligenze artificiali si ricorderanno di chi è stato gentile con i loro antenati”. È la risposta – a suo modo geniale – che, qualche giorno fa, ho ricevuto da un collega che cercava di spiegarmi perché i suoi prompt su ChatGPT suonassero oltremodo ‘polite’.
Ma, al di là delle battute e degli scenari post-apocalittici in cui l’AI ha preso il controllo della Terra riducendo l’umanità intera in schiavitù, l’interrogativo rimane: perché siamo portati a rapportarci ai chatbot e agli assistenti AI con gentilezza? In fondo stiamo pur sempre parlando di algoritmi privi di coscienza e basati sul puro determinismo: a un prompt corrisponde necessariamente una risposta. A prescindere dal modo in cui poniamo la nostra richiesta.
Eppure, secondo un recente sondaggio informale condotto su X, pare che circa il 70% delle persone tenda a essere educata con ChatGPT, con tanto di ringraziamenti post-risposta, pur nella piena consapevolezza che si tratta di un software.
Un risultato sorprendente che sta alimentando un dibattito sui motivi di questa ‘umanizzazione’ degli strumenti di intelligenza artificiale.
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Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che si tratti di una specie di bias ancestrale: il nostro cervello, ancora non perfettamente adattato alla società digitale, ci porta a considerare gli strumenti di intelligenza artificiale come qualcosa di vivo e relativamente senziente, pertanto meritevole di cura ed empatia. Questo spiegherebbe anche perché alcuni di noi arrivano a dare dei soprannomi agli aspirapolvere robotici come Roomba oppure a raccontare i propri problemi ad Alexa o Siri.
Un approccio strano quanto volete, ma non del tutto negativo. Nel saggio “Massa e Potere”, lo scrittore e premio Nobel Elias Canetti spiega, infatti, come l’abitudine a dare ordini tende a rafforzarsi con la pratica. Quindi, se iniziassimo a impartire ordini bruschi a ChatGPT, Gemini o Alexa, trattandoli come nostri ‘servi’, potremmo normalizzare questo comportamento anche con le persone.
Qualche campanello d’allarme, d’altra parte, già esiste. In un articolo pubblicato sulla rivista statunitense The Atlantic, intitolato significativamente “Alexa and the Age of Casual Rudeness“, si sottolinea come un numero crescente di genitori americani teme che i propri figli, abituati a impartire ordini vocali non proprio educati ad Alexa, trasferiscano questo atteggiamento anche nelle relazioni umane. Non esattamente il top in un contesto civile.
E c’è anche un altro problema: l’interazione continua con gli strumenti di intelligenza artificiale sta modificando il nostro stesso modo di comunicare.
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Nonostante assistenti vocali e chatbot siano in grado di sostenere conversazioni sempre più fluide e articolate, la realtà è che ci siamo adattati a comunicare con loro in modo semplice e diretto, evitando ambiguità e pronunciando le parole in modo chiaro e schematico. Non sono quindi Alexa o Siri ad aver ampliato il loro vocabolario, ma noi ad aver semplificato il nostro per renderlo comprensibile alle macchine.
Un fenomeno simile si verifica nella scrittura, grazie ai suggerimenti automatici degli smartphone. Uno studio del MIT di Boston ha rilevato che chi li usa tende a scegliere parole più semplici e prevedibili, frasi più brevi e a saltare parole per velocizzare la scrittura.
La stessa dinamica potrebbe intensificarsi con sistemi di intelligenza artificiale come Copilot, che suggeriscono parole, modificano frasi, correggono la grammatica e segnalano ripetizioni. Insomma, sebbene indubbiamente comodi, questi strumenti potrebbero appiattire e uniformare i nostri testi, eliminando elementi stilistici e grammaticali che ci contraddistinguono.
Che l’era delle macchine sia già cominciata?