Paolo Scoppola, Interactive Media Artist, spiega come l’arte digitale può resistere all’appiattimento dell’intelligenza artificiale generativa. Un viaggio (oggi più necessario che mai) tra onestà artistica, spirito critico e autenticità

Quando l’arte diventa solo un numero su Instagram, o quando una mostra vale per le 300mila presenze e non per quello che lascia nell’anima; quando l’AI genera immagini “belle” ma vuote… cosa resta dell’atto creativo? È la domanda che ha attraversato la mia lunga conversazione con Paolo Scoppola, Interactive Media Artist che ha esposto da Singapore a Shenzhen, collaborato con l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e insegnato nelle università di mezzo mondo.
Durante il nostro evento Transit, nella cornice della Rome Future Week 2025, Scoppola ha messo le carte in tavola: la tecnica non è mai stata il nemico dell’arte. Già negli anni ’80 la Drum Machine automatizzava il lavoro del musicista. Oggi l’intelligenza artificiale generativa fa lo stesso, ma con una differenza cruciale: il rischio di appiattire tutto su un’estetica media, gradevole, universalmente piacevole. E profondamente inutile.
“Il mio lavoro di artista è estremamente egoistico“, confessa Scoppola senza filtri. “Lo faccio per me stesso, perché ho bisogno di capire come sono fatto”.
Niente maestri morali o lezioni dall’alto, solamente brutale onestà: l’unico vero atto politico che un artista può compiere nell’era del tutto-è-contenuto.
Leggi anche NFT: dalla speculazione selvaggia alla rinascita dell’arte digitale?
Cito Le rane di Aristofane (dove Eschilo rivendica il ruolo educativo del poeta) e Scoppola capovolge il paradigma: l’arte non deve educare, deve liberare. “La cosa più bella che può fare un artista è dare strumenti per sviluppare uno spirito critico. Il pubblico che riceve questo spirito diventa un pubblico libero”. È qui che l’arte digitale trova la sua ragion d’essere: non nell’entertainment, non nelle installazioni immersive che ti coccolano per due ore facendoti credere di aver fatto qualcosa di culturale. Ma nella capacità di creare esperienze che ti costringono a pensare, anche se ti massacrano l’anima.

Dal 2000 in poi, qualcosa si è rotto. “Ci stiamo convincendo che i numeri sono la verità”, spiega Scoppola con la lucidità di chi conosce il codice binario dell’esistenza digitale. Follower, visualizzazioni, presenze alle mostre: tutto è quantificabile, quindi tutto conta. Ma conta davvero? Me lo domando spesso.
Dunque, il riferimento che ho personalmente voluto portare, durante l’intervista, è al saggio Contro le mostre di Tomaso Montanari e Vincenzo Trione: quelle “esposizioni blockbuster” su Caravaggio, Van Gogh (o, aggiungo io, Frida Kahlo – che Dio ce ne liberi!), costruite per soddisfare “i bisogni di masse acculturate”. Mostre che non lasciano nulla se non la foto per Instagram e la sensazione di aver fatto qualcosa di “alto”. Il libro ve lo consiglio caldamente, una delle letture più crude del mio percorso universitario magistrale.
“L’arte non è emozione, è pensiero”, taglia corto Scoppola. “Se vuoi provare un’emozione basta vedere un panorama. L’arte è riflessione“. E cita David Bowie: “Non lavorare mai per gli altri, lavora per te stesso. Nel momento in cui hai scoperto una tecnica sulla quale ti senti sicuro, è il momento di fare qualcosa in cui non sei bravo”.
Leggi anche: Way, la startup che amplifica arte e turismo
Eccoci al punto: l’intelligenza artificiale generativa – pensiamo a Midjourney, DALL-E o Nano Banana di Gemini, tra le ultimissime – crea immagini pleasant. Ma cosa ce ne facciamo di un piacere che non nutre? “È come se in un piatto mi dessero sostanze che entrano dentro, ma non servono a nulla”, dice Scoppola. Il rapporto tra essere umano e AI è appena nato (era il 2023), e Scoppola ammette con onestà: “Non riesco ancora a dare risposte definitive”. Ma il rischio è chiaro: l’appiattimento estetico, la ricerca della soluzione media che piace a tutti e non dice niente a nessuno.
Eppure non esclude che si possano creare opere straordinarie con l’AI. Il punto è usarla come strumento, non come sostituto del pensiero. “Uso tantissimo l’intelligenza artificiale, ma come strumento”, afferma Scoppola mentre racconta di una conversazione notturna con un chatbot sull’arte. “A un certo punto gli ho detto: perché hai il nome di una persona e parli come un essere umano se mi hai appena detto che i tuoi principi sono soddisfare l’umano ed essere vero? Ti stai contraddicendo”.

E qui entra in gioco l’arte interattiva, quella che Scoppola pratica: mettere il corpo al centro, dello spettatore e del performer. La Body Art che espone alla vulnerabilità. L’arte performativa che non puoi scrollare via.
Gli chiedo, con estrema franchezza, se questo tipo di arte non sia un po’ l’ultimo baluardo nel mondo artistico. “Spero di no, perché altrimenti sono rimasto solo”, ride Scoppola. Ma la serietà torna subito: “Sono convinto che l’arte digitale, soprattutto quella interattiva, possa essere un modo per indagare se stessi. È il mezzo con cui capisco me stesso”. La differenza tra generare un’immagine bella e creare un’esperienza che ti cambia.
Leggi anche: La fisica restaura l’arte? Il Progetto ARTEMISIA
“L’artista non deve essere perfetto, deve essere una persona sporca, deve essere umana”, chiosa Scoppola.
Deve lavorare per commissione e cercare di metterci del suo. Deve scendere a compromessi perché il mondo non è perfetto. Deve contraddirsi, perché noi siamo la quintessenza dell’essere contraddittorio. Viene in mente la serietà dei musicisti jazz che Scoppola è andato a cercare tra Harlem e Greenwich Village quest’estate: “Quando imbracciavano una chitarra la cosa era molto seria. Non lo facevano perché era figo. Era un bisogno di ricerca autentico”.
Io, nel raccontarvi la nostra conversazione, mi fermo qui. L’intervista completa con Paolo Scoppola – un’ora di conversazione su arte, tecnologia, AI e il futuro della creatività – è disponibile su tutte le nostre piattaforme. Mi fermo perché né alcune riflessioni si possono comprimere in un prompt, né alcune verità si possono generare con un click. Be human. Torniamo ad ascoltare, con attenzione.
T. Sharon Vani







