Nonostante l’esistenza di un’arma importante a suo favore nei negoziati, l’UE ha scelto di non usarla. Perlomeno, non se ne trova traccia nelle dichiarazioni che sono circolate
In principio fu la Web Tax, cioè la proposta di legge presentata per la prima volta durante il Consiglio Ecofin (riunione dei Ministri dI Finanze ed Economia dei Paesi UE) di Tallin, che prevedeva l’introduzione a livello comunitario di nuove linee guida in ambito fiscale, tra cui un’imposta sulle transazioni digitali.
L’obiettivo era quello di rendere più alta, in tutti i Paesi europei, la tassazione per le multinazionali del web, tutte in prevalenza statunitensi, le over-the-top, così ha definito l’Agcom le imprese come Apple, Google o Facebook, che attraverso la rete Internet ottengono ricavi quasi illimitati dalla vendita di contenuti, servizi, spazi pubblicitari.
In Italia, Francesco Boccia, oggi Senatore del PD, si era fatto capofila fin dal 2013 del tentativo di contrastare l’elusione fiscale di queste multinazionali, le quali aggirano il regime di tassazione dei Paesi dove vengono prodotti i loro ricavi. La proposta del Sen. Boccia è stata ostacolata più volte, fino a quando nel 2020 è entrata in vigore una Web Tax che colpisce l’ammontare di ricavi complessivi superiore a 750 milioni di euro, ma rimane provvisoria in attesa dell’entrata in vigore di accordi a livello internazionale.
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Tuttavia, nell’ambito della contesa che va avanti da mesi tra Stati Uniti e UE sulle tariffe doganali, i cosiddetti dazi, un Memorandum dell’amministrazione statunitense ha preso di mira proprio le Digital Services Tax già introdotte negli anni in diversi Paesi europei, ma anche asiatici, come l’India. Trump considera questa legislazione fiscale discriminatoria e in contrasto con i principi internazionali. E, mentre questi stati vengono accusati dal Presidente USA di aver attuato strumenti espropriativi a danno delle imprese statunitensi, minacciando per questo ritorsioni, l’Europa è corsa ai ripari. Perlomeno così sembrerebbe agli osservatori più attenti.
Come ipotizzato da Agenda Digitale, la potenziale nuova imposta europea sui servizi digitali potrebbe assumere diverse configurazioni. Tra i probabili scenari cui la rivista diretta da Alessandro Longo ha fatto riferimento vi è la creazione di un’imposta unitaria a livello comunitario che valorizzi le esperienze già esistenti in molti Paesi. Un’altra alternativa considerata è l’istituzione di una “accisa digitale” che colpirebbe direttamente i prodotti digitali provenienti dagli Stati Uniti.
Ma per ora tutto resta nel campo delle ipotesi. Perché l’implementazione di un’imposta unica europea sui servizi digitali, si legge, “soprattutto se intesa come strumento di politica commerciale, si confronta con diverse sfide e potenziali controindicazioni, tra cui i dubbi sulla possibile adesione di alcuni Stati membri”. Così, un’ulteriore strada che l’UE potrebbe intraprendere, nel contesto più ampio della risposta alla guerra sui dazi imposta da Trump, potrebbe essere l’apertura all’offerta di servizi digitali provenienti da altri Paesi, in particolare, dalla Cina. Un ultimo scenario che ha sollevato anche su queste pagine interrogativi in tema di tutela dei dati personali.
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In tutti i casi, da quanto è emerso nelle ultime ore, nonostante l’esistenza di un’arma importante a suo favore nei negoziati, come quella della regolamentazione digitale, l’UE ha scelto di non usarla. Perlomeno, non se ne trova alcuna traccia nelle dichiarazioni che sono circolate.
Resta il fatto che, in definitiva, l’Europa ha perso la guerra dei dazi, visto che è stata costretta a capitolare di fronte a un primo accordo al ribasso che prevede per alcune categorie di prodotti il 15% delle tariffe, per altri, come quelli siderurgici, addirittura il 50%. E la stessa Casa Bianca ha riferito che l’UE si è impegnata a non introdurre tasse sulle Big Tech. Sarà vero?
Gaetano De Monte
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