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Lo stato di salute dell’occupazione in Italia nell’era del lavoro intelligente

Il Prof. Pietro Ichino, a dialogo con il nostro direttore editoriale Paolo Emilio Colombo, discute di occupazione, pratiche partecipative e formazione professionale coerente con le richieste del tessuto produttivo

 

 

È possibile una relazione non antagonista tra datori di lavoro e lavoratori nel mondo del lavoro intelligente?

Ne discutiamo con il Prof. Pietro Ichino, giurista, politico e sindacalista che, nel corso della sua attività di Ricerca, e nel mare magnum delle sue pubblicazioni, si è occupato e ha scritto, tra gli altri temi, di funzione ed efficacia del contratto collettivo, problemi e prospettive di riforma del mercato del lavoro, analisi economica del Diritto del lavoro.

All’indomani della critica all’austerità e dell’invito a cambiare modello economico rivolto all’Europa dall’ex premier Mario Draghi, in occasione del simposio annuale del Centre for Economic Policy Research, la conversazione non può che muovere dalla domanda: qual è lo stato di salute del mondo del lavoro in Italia? 

“Per certi aspetti è ottimo, perché il tasso di occupazione in Italia ha toccato il suo massimo assoluto. Il tasso di occupazione sopra il 62% è un dato notevolissimo, il massimo in Italia da quando abbiamo una serie statistica confrontabile. Probabilmente, però, il buon dato percentuale è anche un effetto del calo della popolazione italiana, che perde 300mila unità ogni anno. Le note positive si fermano qui. Per altro verso, il dato relativo alla retribuzione media del lavoro in Italia è negativo. Il lavoro è retribuito meno rispetto a quasi tutti gli altri Paesi europei. È l’effetto di una produttività media che è ferma, che ha avuto un incremento modestissimo, quasi insignificante, nell’arco degli ultimi 25 anni. Questo non può che portare al blocco dei salari. È il dato che dobbiamo affrontare, su cui ci richiama Draghi con la sua ammonizione; si può risolvere solo facendo aumentare la produttività del lavoro.”

 

La copertina dell’ultima raccolta di saggi di Pietro Ichino

 

Dal 30 ottobre 2024 è in libreria l’ultima fatica del Prof. Ichino, a cura di Francesco Alifano, per i tipi di Adapt University Press, “Mezzo secolo di Diritto del lavoro. Il rifiuto della faziosità e del conformismo come metodo: dialogo su 15 saggi con alcuni giovani giuslavoristi”. Si tratta di 15 scritti, redatti dal 1976 ad oggi, ciascuno attualizzato con un’ampia intervista. I temi sono i più disparati: dalla ragion d’essere del Diritto del lavoro a quella del sindacato, dalla questione dell’autonomia negoziale individuale al rilievo del tempo di lavoro, passando per l’impatto delle nuove tecnologie, la segmentazione dell’impresa e la riforma dei licenziamenti.

Ci soffermiamo sulla storia delle pratiche partecipative nel nostro Paese, dove spesso si sono ritrovati contrapposti su due barricate lavoratori e datori di lavoro, per chiedere al Prof. Ichino, anche alla luce delle nuove riflessioni presenti nel volume succitato, come si può superare la cultura dell’antagonismo, costruendo invece uno scenario positivo, razionale, che tenda verso un mercato del lavoro più libero e intelligente e verso una maggiore autonomia dell’individuo?

Secondo Ichino il ritardo notevole delle pratiche partecipative in Italia è diretta conseguenza di una cultura dominante nel movimento sindacale basata sull’idea di un antagonismo irriducibile tra capitale e lavoro. Con le parole del Professore:

“L’ideologia dell’antagonismo irriducibile è stata enfatizzata, dal ’68-’69 in poi, al punto di diventare un’idea comune a quasi tutto il movimento sindacale in quegli anni e questo non ha giovato al diffondersi di pratiche partecipative che richiedono che ci sia almeno un riconoscimento reciproco tra impresa e lavoro, per cui non può esserci buona impresa senza buon lavoro, e viceversa. Questo implica che il sindacato riconosca il ruolo sociale positivo dell’imprenditore. Invece, parte consistente del nostro movimento sindacale ha tardato molto nel dare questo riconoscimento alla sua controparte. Questo necessariamente ha portato al rifiuto e alla diffidenza […]. Ricordo che nella legge Fornero del 2012 venne inserita una delega al governo per una legge sulla partecipazione che non venne esercitata, venne lasciata cadere. Penso che forse potrebbe valere la pena di ripartire da lì.”

 

 

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È indubbio che le grandi ristrutturazioni industriali richiedono una scommessa comune tra lavoratori e impresa; scommessa che prevede che i lavoratori siano disposti a scommettere sul nuovo piano industriale a loro volta, rischiando anche qualcosa di proprio. “Si tratta di un discorso inevitabilmente collettivo, che richiede un sindacato-intelligenza collettiva dei lavoratori che sappia valutare la bontà, la credibilità, l’affidabilità del piano industriale proposto dall’imprenditore”, osserva Ichino. “Diverso è il discorso sullo sviluppo dell’autonomia individuale del lavoratore, che pure a mio avviso è molto importante”.

Il Diritto del lavoro e la contrattazione collettiva sono nati per correggere un’originaria distorsione. Infatti – spiega Ichino – all’indomani della rivoluzione industriale, il mercato del lavoro era caratterizzato dall’azienda industriale-cattedrale nel deserto. Ovvero un unico soggetto domandava lavoro e consentiva di poterne trarre un utile molto maggiore rispetto alle mansioni agricole. In quel contesto, il lavoratore non aveva alcuna possibilità di scelta. Questo determinava la cosiddetta ‘distorsione monopsonistica’, che nasce nel momento in cui c’è un unico compratore di fronte a una grande pluralità di venditori di forza lavoro. Dalla metà del Novecento in poi, nell’Occidente la situazione è radicalmente mutata e oggi c’è una grande pluralità di imprese che cerca lavoro.

“Ne consegue che, se un individuo ha sufficienti informazioni sulla domanda di lavoro, i necessari servizi che gli consentono di candidarsi alle offerte di lavoro e la mobilità necessaria per raggiungere il posto di lavoro, garantita anche dall’abbattimento delle barriere, ecco che torna a poter scegliere e allora la protezione, l’emancipazione del lavoro non deve più essere impostata in termini di deprivazione dell’autonomia negoziale, di imposizione di uno standard collettivo inderogabile, ma in termini di potenziamento dell’informazione, della formazione mirata agli sbocchi lavorativi, della mobilità della persona, del rafforzamento della capacità negoziale individuale.”

La cultura sindacale deve riconoscere e confrontarsi con questa evoluzione dello scenario. La domanda, provocatoria, sorge spontanea: è il caso che i sindacati, che un tempo entravano nelle fabbriche, oggi entrino nelle scuole allo scopo di fare orientamento?

 

 

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Il Prof. Ichino è certo che la qualità della formazione erogata in Italia vada migliorata e fatta corrispondere a ciò che il tessuto produttivo richiede. Per farlo, però, occorrerebbe rilevare i risultati dei corsi di formazione già erogati, ma come? Uno strumento potrebbe esserci: l’anagrafe della formazione professionale.

Era prevista dal decreto legislativo 150 del 2015, uno degli otto attuativi del tanto vituperato Jobs Act. Prevedeva che ogni iscritto a un corso finanziato con il denaro pubblico fosse iscritto a questa anagrafe e che poi i dati fossero incrociati sistematicamente con quelli delle comunicazioni obbligatorie al Ministero del Lavoro sui contratti stipulati, nonché con le iscrizioni alle liste di Albi e Ordini del lavoro autonomo e alle liste di disoccupazione; in modo che di ogni caso di formazione si potesse sapere se ha prodotto occupazione, se l’ha prodotta coerente con la richiesta del tessuto produttivo, se ha prodotto disoccupazione. Questo consentirebbe di attribuire un rating a ogni corso, ma purtroppo questa norma non è mai stata attuata. Vedrei bene uno sciopero generale contro questo gravissimo ritardo, invece il sindacato di questo non si occupa, ma neanche la politica […]. Ritornando alla stagnazione della produttività in Italia denunciata da Draghi, dovremmo considerare che è un dato medio. C’è un buon terzo abbondante di imprese italiane che hanno una crescita altissima di produttività del lavoro, un 25% di imprese con una produttività abbastanza stabile e un terzo con una produttività bassa, se non addirittura zero. Se sapessimo creare i percorsi di formazione per portare i dipendenti delle aziende submarginali a farsi assumere da quelle produttive che cercano e non trovano personale, otterremmo che queste persone vedrebbero molto meglio valorizzato il proprio lavoro di quanto non accada oggi e, quindi, aumenterebbe anche la produttività“.

Nel volume “Mezzo secolo di Diritto del lavoro. Il rifiuto della faziosità e del conformismo come metodo: dialogo su 15 saggi con alcuni giovani giuslavoristi”, non manca un saggio che guarda all’intelligenza artificiale con entusiasmo.

“La paura che il progresso si mangi il lavoro umano ci segue da due secoli, ma è del tutto ingiustificata”, commenta Ichino. “È dimostrato da un semplice dato, che riguarda il nostro Paese, ma vale per qualsiasi Paese dell’Occidente sviluppato: in Italia nel 1977 i lavoratori occupati erano 19 milioni, gli italiani 60 milioni. Oggi, con tre milioni in meno di italiani, i lavoratori occupati sono tra i 23 e i 24 milioni”.

Tutto questo nell’arco di 50 anni di progresso tecnologico galoppante.

Sabrina Colandrea

Ospite

Pietro Ichino

Parallelamente al conseguimento della laurea in Diritto del lavoro all’Università Statale di Milano, Ichino è stato dirigente sindacale della Fiom-Cgil nella zona di Cusano Milanino-Paderno-Solaro dal 1969 al 1972. Dal 1973 al 1979 è stato poi responsabile del Coordinamento dei servizi legali della Camera del Lavoro di Milano. Da allora, ha sempre collaborato con Cgil, […]

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