Un’intervista molto lunga. O un libro troppo breve: “Cenerentole e Sorellastre. Una botanica della bellezza” è l’ultima fatica di Ilaria Gaspari
Edito nella collana Quanti di Einaudi, Cenerentole e Sorellastre è una riflessione sui canoni della bellezza che incrocia fiabe, fiori e il racconto memorialistico di sé e del rapporto con il proprio corpo nel tempo. Ilaria Gaspari ne parla per la prima volta su Radio Activa Plus con Lelio Borgherese.
“Mi sono chiesta cosa fosse la bellezza naturale e perché essere belli e belle è così importante”. E la risposta non viene tanto, o solo, dai vantaggi del riconoscimento sociale, ma soprattutto dal costruirsi di un paradigma dello sguardo che è concetto filosofico e pratica di vita. A seguito della pandemia – interessante l’insight di Ilaria Gaspari – il numero degli interventi estetici a cui ci si sottopone per modellare il proprio corpo è aumentato, anche come diretta conseguenza dei mesi trascorsi a guardare e guardarsi in video, volto tra i volti ingranditi nello schermo.
Un confronto con la propria immagine così reiterato da indurre ciascuno a cercare il modo per riconciliare l’immagine di sé con lo sguardo che su di sé viene proiettato dall’esterno. Una distanza che più si riduce più garantisce uno sviluppo organico, unitario, coordinato della personalità e più si divarica più ci lascia insoddisfatti, ansiosi, imprecisi. Persi. Nella vita il momento in cui forse questa distanza appare più incolmabile è l’adolescenza, già tema, impegno e riflessione cari a Ilaria Gaspari.
Il lavoro di divulgazione che Gaspari fa con lo Struzzo, iniziativa Einaudi per le scuole, e l’attitudine generale a prendere concetti complessi per renderli tascabili e maneggevoli per tutti (ragazzi compresi) ne sono la testimonianza esplicita. Ed è proprio nelle scuole che Ilaria Gaspari sta trovando una generazione con vecchi problemi, ma nuove tecniche di gestione, tra cui il dialogo. Il rapporto con il corpo, dove percezione e rappresentazione si saldano in una concrezione emotiva, intensa come in tutte le adolescenze, ma oggi affrontata in modo più coraggioso e disinvolto, esprimendo le difficoltà che, su tutte le emozioni, ansia e gelosia comportano.
Parte da qui la riflessione sulla Scuola contemporanea e sulla schola delle poleis greche, luoghi di confronto dove i giovani, senza il vincolo dei doveri, erano liberi di fare esercizi spirituali, nell’accezione di Pierre Hadot. E imparare la “postura”, della mente, del cuore e del corpo, slanciata verso e adatta alla libertà. Libertà dalla paura, che dovrebbe essere, per Gaspari, il centro di gravità delle nostre scuole. Un augurio quindi a rivedere l’educazione dei giovani fatta di meno studio e più esplorazione ed educazione al coraggio, indispensabile per un tempo di cambiamento e innovazione che ha bisogno di nuovi paradigmi, nuove nozioni, nuovi modi di organizzare il sapere per dare risposta alle sfide del contemporaneo.
Non ci sono ricette per una rivoluzione che punta ai giovani ma parte dagli adulti, da chi ha la responsabilità di “aprire il cuore e le menti” allo studio delle idee, ma c’è una strada antica quanto Aristotele da ritrovare, ricordandosi l’importanza della “meraviglia” nei percorsi di apprendimento e orientandosi a trasmettere prima il senso ultimo di una ricerca filosofica, il perché si cerca e si esplora, e poi i modi e le tecniche di ogni pensiero e corrente. Un insegnamento che, è bene ricordarlo alle soglie di una nuova legislatura, dovrebbe essere esteso non solo a tutti i licei ma anche a scuole di ordine e grado precedenti, per aumentare la familiarità dei ragazzi – e soprattutto per alimentarne l’amore per la conoscenza, conditio sine qua non per rimodellare anche il mondo del lavoro.
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La riflessione si avvita così sui modelli del lavoro, oggi orientati verso la performance individuale più e prima che verso la costruzione di servizi e soluzioni realmente utili per plasmare un mondo più equo, sostenibile e felice. Anche qui Ilaria Gaspari va al cuore del problema: la difesa e l’estensione dei diritti. La filosofia – o meglio, la postura di cuore, corpo e mente cui la filosofia ci abitua – aiuta a immaginare il mondo come dovrebbe essere e non come è. Sembra una citazione del Treplev di Checov, è una (delle tante) idee troppo semplici per essere prese sul serio. Senza la quale però la realtà come è rimane incompiuta e fuorviante. Nel mondo del lavoro e nella vita in generale.
Un altro filosofo, Luciano Floridi, nel suo ultimo lavoro edito da Raffaello Cortina Il verde e il blu – Idee ingenue per migliorare la politica, pochi mesi fa invitava a cogliere l’opportunità di trasformazione di questo tempo a partire da idee “ingenue”, essenziali per rimettere al centro un’interpretazione sana della vita come progresso di ciascuno correlato con il progresso degli altri e dell’ambiente.
Un’intuizione, quella di riallargare l’orizzonte asfittico del presente recuperando l’idea di “futuro insieme” e di “trust”, ben rappresentata dall’intima confessione di Lelio Borgherese che richiama la relazione tra motivazione e desiderio di non essere dimenticati, di lasciare traccia dopo la morte con le opere e le parole concepite in vita per la vita che verrà. Altre donne e altri uomini che ancora non sono venuti – i figli, certo, più volte richiamati nell’intervista, ma più in generale le generazioni che dipendono dalle nostre scelte – sono la ragione della responsabilità e il metro del giudizio con cui misurare decisioni e azioni. Se la realtà che lasciamo sarà ancora in grado di esprimere la speranza di chi l’ha plasmata o se sarà un algoritmo di coazioni a ripetere, questa è la domanda con cui la filosofia ci interroga e ci supplica.
E Borgherese chiude citando Stefan Zweig:
“Nessuna cosa è dove la parola manca.”
Paolo Emilio Colombo