Dal Rapporto GreenItaly 2022 di Fondazione Symbola e Unioncamere: le imprese green affrontano meglio le crisi
Presentato il rapporto GreenItaly 2022, realizzato da Unioncamere e Fondazione Symbola, con la collaborazione del Centro Studi Tagliacarne. Al rapporto hanno collaborato Conai, Novamont, Ecopneus, molte organizzazioni e un gruppo di oltre 40 esperti. Uno studio che ha avuto il merito di rispondere a quesiti importanti in tema di Green Economy e trasformazione digitale. Quello che la lettura del rapporto evidenzia senza possibilità di appello è che “le imprese green affrontano meglio le crisi”, ma per quale ragione?
Proviamo ad analizzare questa affermazione insieme.
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I dati raccolti fotografano un sistema che, nonostante sia messo a dura prova dal contesto socioeconomico attuale, riesce a competere puntando su sostenibilità, coesione e innovazione. Il governo e le imprese non possono più permettersi di considerare la sostenibilità come un peso in una strategia di crescita. Anzi, la sostenibilità deve diventare elemento fondante del successo di un business. Altro che moda, dal rapporto si legge che
“sono oltre 531 mila le aziende che nel quinquennio 2017-2021 hanno deciso di investire in tecnologie e prodotti green. Il 40,6% delle imprese nell’industria ha investito, valore che sale al 42,5% nella manifattura. Guardando alle performance economiche è possibile comprendere anche le ragioni che spingono le imprese a investire in prodotti e tecnologie verdi. Le imprese eco-investitrici sono infatti più dinamiche sui mercati esteri rispetto a quelle che non investono (il 35% delle prime prevede un aumento nelle esportazioni nel 2022 contro un più ridotto 26% di quelle che non hanno investito). Percentualmente aumentano di più il fatturato (49% contro 39%) e le assunzioni (23% contro 16%).”
Quindi, la sostenibilità, oltre a rivelarsi necessaria per affrontare la crisi climatica, comporta una riduzione dei profili di rischio per le imprese e per la società tutta, stimola l’innovazione e l’imprenditorialità, rende più competitive le filiere produttive. Questo “salto” è ancora più evidente se si associano strategie green con investimenti nella transizione digitale, dato che “quando una impresa persegue entrambi gli obiettivi, la produttività aziendale cresce fino al 14%”.
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Il rapporto analizza poi la nostra posizione come Paese nel contesto internazionale e, abbandonati i bias che ci costringono spesso a immaginarci come fanalino di coda dell’Europa, possiamo programmare l’agenda di sviluppo a testa alta. Come ci posizioniamo rispetto al resto del mondo in tema di Green Economy?
Siamo leader nell’economia circolare con un avvio a riciclo sulla totalità dei rifiuti – urbani e speciali – del 83,4% (2020): un risultato ben superiore alla media europea (53,8%) e a quella degli altri grandi Paesi come Germania (70%), Francia (64,5%) e Spagna (65,3%). A sottolineare il potenziale dell’Italia nella valorizzazione di materia a fine vita, anche il quarto posto al mondo come produttore di biogas – da frazione organica, fanghi di depurazione e settore agricolo. Nel biennio 2020-2021 si è inoltre verificato un inatteso consolidamento della capacità di riciclo industriale dell’Italia – specialmente nel comparto cartario – che ha visto in tutti i settori incrementare, anche in maniera importante, la quota di materie seconde impiegate. Un eccellente risultato per la transizione ecologica e lo sviluppo di un’economia sempre più circolare. Tuttavia, in alcuni settori l’Italia deve ancora far ampio affidamento sulle importazioni di materia seconda dall’estero. Buone anche le performance complessive del sistema produttivo italiano, che a parità di valore prodotto genera meno rifiuti, con 47,4 tonnellate di rifiuti per milione di euro prodotto (2020), seconda solo alla Spagna (40,7), e un tasso d’uso di materia seconda del 21,6% (2020), che si avvicina al primato della Francia (22,2%). A questi si aggiungono i primati nella produttività nell’uso di materie prime (PIL/Consumo domestico di materia), nella produttività per consumi energetici (PIL/consumo lordo energia), e un buon posizionamento relativo all’efficienza delle emissioni (CO2eq/PIL).
Forse, anche in questo caso, la maggioranza di noi potrebbe essere sorpresa, eppure dalla lettura dei numeri si evince una situazione che in materia di riciclo non ci vede arrancare. Il quesito da porre per un’impresa oggi quindi deve essere: quanto sono disposto a mutare pelle per godere dei benefici dell’economia circolare?
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Il mercato del lavoro risulta essere poi un altro pilastro essenziale per capire appieno le potenzialità dell’elemento sostenibilità in ottica di crescita di mercato, sia nel pubblico che nel privato. Infatti, in Italia
“i contratti relativi ai Green Jobs – con attivazione 2021- rappresentano il 34,5% dei nuovi contratti previsti nell’anno. Andando nello specifico delle figure ricercate dalle aziende, emerge una domanda per figure professionali più qualificate ed esperte in termini relativi rispetto alle altre figure, che si rispecchia in una domanda di Green Jobs predominante in aree aziendali ad alto valore aggiunto. A fine anno gli occupati che svolgono una professione di Green Job erano pari a 3.095,8 mila unità, di cui 1.017,8 mila unità al Nord-Ovest (32,9% del totale green nazionale), 741,2 mila nel Nord-Est (23,9%), 687,9 mila unità nel Mezzogiorno (22,2%) e le restanti 648,8 mila al Centro (21%).”
Se facciamo i conti, sono 3,1 milioni di lavoratori green, il 13,7% degli occupati. Una tendenza che è destinata a salire, ma che ha bisogno per crescere organicamente di un ponte più solido di passaggio tra istruzione e mondo del lavoro. “Puntare sulla formazione” non può essere solo uno slogan da campagna elettorale, ma deve avere delle ricadute sia sul piano PA sia su quello PMI. Il nuovo governo è pronto a compiere queste scelte e non rimanere indietro rispetto alle imprese?
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